Ho ancora la fortuna di meravigliarmi, soprattutto durante le poche giornate soleggiate delle mezze stagioni svedesi. In esse, la placida luce del meriggio si imbatte nei palazzi gialli del mio quartiere di Stoccolma, conferendo loro una tonalità di contemplativa pigrizia che sempre pesa di malinconia sul mio cuore che osserva.
Con questa stessa malinconia sto vivendo gli ultimi mesi della mia esperienza in Svezia. Sono atterrato qui alla fine di agosto del 2020 per studiare Letteratura Italiana all’Università di Stoccolma. Per molti è stata una follia, quella di voler studiare italiano in un Paese straniero. Tuttavia, in quel momento della vita avevo l’esclusivo bisogno di recidere i miei legami con la mia piccola città del nord Italia e di crearmi una quotidianità che fosse più conforme alla grandezza dei miei sogni. Mai scelta fu più giusta. La mia esperienza di studio in Svezia mi ha restituito quell’entusiasmo per la conoscenza che avevo totalmente perduto dopo il deludente confronto con il sistema universitario italiano.
Tuttavia, con il trascorrere dei solitari mesi di pandemia, mi sono progressivamente accorto che questo motivo di gioia, per quanto grande, non poteva esaurire una sete di Senso che era radicata ben più in profondità nel mio cuore. Attorno a me, tutto stava crollando. Vivevo un momento di isolamento imposto dalla chiusura delle Università svedesi a causa della pandemia. Anche gli sparuti rapporti con i miei cari in Italia stavano deteriorandosi. Finché, grazie alla mia fidanzata, allora in Italia, ho riscoperto la fede in Cristo, che avevo accantonato per anni. Da lì è iniziato un nuovo tracciato della mia avventura svedese. Ho conosciuto, attraverso la Chiesa, tante persone luminose, testimoni di un Amore che ci trascende, ma che vuole farci a noi prossimo. Non potevo sapere di essermi addentrato in un deserto.
Infatti, pur continuando a credere che la Svezia potesse darmi infinite opportunità di realizzarmi, è cresciuta in me la consapevolezza dell’aridità che mi circondava. Grazie a Gesù, il mio cuore aveva aguzzato gli occhi, facendomi capire che non posso bastare a me stesso. Il senso della mia vita è donarla. Tuttavia, il grido di questo mio desiderio ha sempre continuato a riecheggiare invano nel deserto dell’individualismo svedese. Soprattutto dopo aver conseguito la laurea, con l’inizio della mia vita lavorativa, ho notato con attenzione sempre crescente quanto il “Paese dell’uguaglianza” non sia altro che il Paese del conformismo sociale (si parla di åsiktkorridoren, “corridoio delle opinioni”); quanto il lagom costituisca la giustificazione di un isolamento volontario, di un’esclusione dell’Altro dal proprio orizzonte di vita in nome della libertà di non stressarsi; quanto il presunto contatto con la natura faccia da mera cornice ad una società che fa assurgere il progresso tecnologico a religione laica a discapito di un’esistenza più umana. Molte di quelle stesse persone, anche di fede, che all’inizio della mia avventura in Svezia mi sono state tanto vicine hanno progressivamente fatto aderire la propria quotidianità ai tre pilastri concettuali, invero assai fragili, su cui si basa la società svedese: materia, quantità e movimento. Esisti solo se compri, hai una bella vita solo se ti districhi schizofrenicamente tra mille impegni – senza portarne a dignitoso compimento nemmeno uno – e se viaggi frequentemente. Talvolta ho provato a confidare queste perplessità ai molti italiani che ho conosciuto qui a Stoccolma. Le risposte che ho ottenuto sono state all’incirca: “Eh, ma no! La Svezia è bella: ti dà i sussidi per la disoccupazione, per i figli, il nido è gratis…”. Costa così poco la felicità? Eppure, quando cammino per le vie della città, non incrocio sguardi gioiosi.
Così, per tutte queste ragioni, ho deciso di concludere la mia esperienza svedese. Ci deve essere una fine anche a questo deserto. So di averlo attraversato fino in fondo, con responsabilità. Forse, al confine di questo mare di sabbia e arsura, troverò un inatteso giglio di memorie e gratitudine con cui approdare in una terra più piana. Perché, dopo il solitario deserto di morte, c’è sempre la resurrezione
Sebastiano Rossi