Ho i brividi e probabilmente ho di nuovo la febbre. Addosso ho una stanchezza indescrivibile. Mi gira la testa. Faccio fatica a respirare. Ho il naso chiuso e soprattutto tossisco come la doppia cassa di un batterista Heavy Metal.
Nonostante tutto questo sono dovuto uscire di casa e venire qui, dal medico di base.
Passo dall’accettazione e mi metto seduto nella sala d’attesa. Mi guardo attorno e spero sempre che tutti i pazienti presenti stiano aspettando un altro medico, non il mio. Mi sbaglio. Per fortuna però che in Svezia non bisogna chiedere chi è l’ultimo in fila e non bisogna stare allerta che qualche vecchio ti freghi il posto perché la segretaria in accettazione registra l’ordine di visita sul computer e da lì non c’è scampo.
Non mi resta altro che sedermi. Non c’è molto per distrarsi, se non alcuni giochini e libri per bambini o riviste scientifiche vecchie di qualche anno. La scelta è semplice e mi lancio prima che possa farlo qualcun altro su “Pierino incontra i dinosauri”.
Non passa molto tempo durante la mia stimolante lettura che mi scappa qualche colpo di tosse simile a un rantolo di un malato terminale. Per un attimo ho la sensazione che la musichetta jazz di sottofondo si sia fermata. Mi sento lo sguardo degli altri addosso come in un saloon del Far West. Mi scannerizzano da testa a piedi e mormorano al vicino di posto una diagnosi con prognosi riservata. Mi fanno sentire un appestato e a guardar bene, il libro che tengo in mano sembra ormai “L’amore ai tempi del colera” più che un libro per bambini. Quelli al mio fianco tossiscono a loro volta, non per un mal di gola ma per mascherare il rumore della sedia che si sposta per allontanarsi da me. Mi sento una goccia di detersivo in una teglia sporca di grasso di maiale in uno spot della Finish: io a un lato della stanza e gli altri a tre metri di distanza.
Il tempo non passa più ma alla fine il medico mi dà un colpetto sulla spalla e mi sveglia. È il mio turno. Spiego i miei sintomi e racconto come mi sento. Esagero. È sempre la mossa migliore per essere ascoltati seriamente. Per accentuare ulteriormente i miei problemi uso la pantomima e le doti nascoste di teatrante. La dottoressa non batte ciglio e sfoggia il classico approccio della medicina svedese inciso sul bastone di Asclepio e mantra di ogni libro di testo universitario: “Che cosa pensi di avere?”
Ma come, dottoressa? Questo me lo deve dire lei. Lei ha una laurea in medicina (speriamo), non io. Lei ha ascoltato i miei sintomi, io li ho solo raccontanti. Lei deve fare la diagnosi, io seguire la terapia. Lei deve salvarmi la vita, io la devo vivere. Vivere male per poi dover tornare da lei per un altro malanno, in modo tale che il sistema sanitario possa funzionare.
Naturalmente non dico niente di tutto ciò e biascico qualche diagnosi di circostanza per riempire i silenzi e l’imbarazzo. Lei mi guarda con gli occhi sbarrati e dice che potrei avere ragione. A quanto pare anch’io ho una laurea in medicina. Ormai sono abituato a questo iter e non mi stupisco più di tanto. Passiamo quindi ad altri test.
Incontro l’infermiera per un prelievo. Niente di strano. Usa uno strumento che sembra una spillatrice e mi fa un buchino sul dito. Ero tranquillo ma quando mi accorgo della fontanella di sangue che sgorga dalla pelle perdo un attimo il mio aplomb da vero uomo duro, da macho italiano tutto o da vichingo adottato e mi scappa una smorfia. L’infermiera sorride: aveva già capito che quella dell’uomo tutto d’un pezzo era solo una maschera. Probabilmente mi hanno tradito i calzini di Topolino. Per fortuna il prelievo è sufficiente e posso tirare un sospiro di sollievo. I miei livelli di CRP – la proteina del fegato C-reattiva – sono alti, segno di un processo infiammatorio in corso.
Torno dal medico con un tassello del puzzle in più. Stranamente non mi chiede come penso che siano andati i risultati dell’analisi del sangue perché è già stata informata dalla collega. Manca un ultimo dato da raccogliere: la manetta per il dito, anche chiamato saturimetro. Fortunatamente i miei livelli di ossigenazione del sangue sono normali e non devo chiedere aiuto ai globuli rossi di “Esplorando il corpo umano” di darmi un paio di pallette trasparenti dalla loro schiena.
Alla fine la dottoressa ha tutto quello che le serve per… rullo di tamburi… per diagnosticarmi una polmonite. Probabilmente. Forse. Presumibilmente. Eh già, perché in Svezia spesso non fanno lastre e quindi non c’è la certezza. Io comunque sono un tipo semplice e mi accontento.
Per la terapia giunge anche la sorpresa finale: mi prescrivono degli antibiotici. Evento rarissimo nei poliambulatori quasi quanto vedere una banca abbassare i tassi d’interessi in questo periodo storico. Dovrei essere felice della cura ricevuta ma mi prende un po’ d’ansia. Visto che ottenere una ricetta per gli antibiotici in Svezia succede solo nei casi più gravi e quasi come ultima spiaggia, mi sembra tanto di aver ricevuto un biglietto da visita di un’agenzia di pompe funebri. La dottoressa mi rassicura che andrà tutto bene e che nel giro di una o due settimane dovrei stare bene. Poi mi caccia fuori. Avanti il prossimo.
Prima di chiudere la porta mi comunica con un sorriso a trentatré denti che ha mandato un’impegnativa per una lastra toracica. Incredibile, ho trovato un poliambulatorio che fa le cose per bene. Oggi deve essere il mio giorno speciale. Deve essere un giorno fortunato. Va bene, non così fortunato: ho una polmonite. Posso però almeno cercare di cavalcare questa piccola dose di buona sorte e prima di passare in farmacia sarà meglio fare un salto dal tabaccaio e giocare al Lotto.
Roberto Riva
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