PLING.

Il microonde suona e mi segnala che il pranzo è pronto. Apro lo sportellino. Prendo il piatto e lo appoggio sulla tavola. Mi giro un attimo a versarmi un bicchiere d’acqua e quando torno al tavolo i miei colleghi svedesi hanno costruito una vetrinetta attorno al mio piatto di pappardelle al sugo d’anatra. È una vetrina perfettamente pulita. Non c’è un graffio, né una macchia o una ditata. Hanno installato una luce calda e avvolgente puntata sul piatto per esaltare anche l’aspetto estetico del prodotto.

Mi siedo esterrefatto e comincio tranquillamente a mangiare, ma c’è qualcosa di strano. Mi sento gli occhi di tutti addosso. Mi sento in esposizione. Non faccio in tempo a chiedere che cosa sia successo che i colleghi costruiscono una vetrina anche attorno a me. Non che io sia bello o degno come il delizioso pranzo che ho portato, ma perché l’esibizione comporta anche che le pappardelle vengano mangiate e a loro sembra giusto che sia l’autore a farlo (in effetti sembra giusto anche a me). Come ogni turista che si rispetta, i miei colleghi si lanciano in commenti sfrenati ogni giorno quando porto il pranzo. Alcuni invidiano la mia pizza fatta in casa, la pasta al ragù di una ricetta centenaria della nonna, scaloppine al vino bianco con contorno di funghi porcini che si sciolgono in bocca, risotto alla zafferano preparato come si deve e che non sembra la colla che vedo spesso nei loro piatti. Altri invece mi criticano velatamente per i troppi carboidrati, per le poche verdure, per la poca varietà di proteine, per la scarsità di piatti vegani o per lo sbilanciamento nutrizionale complessivo del prodotto. Un po’ come fanno quelli che davanti alla concessionaria della Ferrari schioccano la lingua, fanno spallucce e commentano con gli amici del bar con aria forzatamente distaccata che loro, anche se avessero i soldi, non si comprerebbero mai un’auto del genere perché è uno spreco. Oppure come quando si dice che Venezia è bella, ma non ci vivresti mai. In pratica anche loro sono invidiosi ma lo dimostrano in altre maniere e non lo ammettono.

Ad ogni modo, indipendentemente a quale gruppo appartengono mi subissano di domande sulla cucina italiana. Provo a dir loro che non sono Antonella Clerici o Carlo Cracco ma loro non si fermano.

La pasta è fatta in casa? Ho la Nonna Papera in un armadio della cucina ma non la uso ogni giorno.

Hai chiuso i tortellini a mano, uno ad uno? No, li ha fatti mio zio Giovanni.

Hai preparato tu gli gnocchi (che loro ovviamente pronunciano <ghnocci>) partendo da zero con le patate? No, anche quelli sono fatti da mio zio Giovanni. Non colgono la battuta sul signor Rana e ora credono che mi sia portato dall’Italia il fratello di mia madre come cuoco personale.

E avanti così con domande di ogni tipo sui tempi di cottura, sulla lavorazione, le richieste di ricette dettate a memoria. Va bene che ogni lunedì arrivo con la pizza fatta col fornelletto da 400 gradi che sembra uscita dalla pizzeria, ma non è che devo sentirmi la nonna Pina per ogni piatto che presento in tavola.

Essere sulla bocca di tutti a ora di pranzo, però, non è solo il privilegio di salire sul piedistallo, ma è anche il rischio di caderci rovinosamente. Stare in vetrina a volte comporta pressioni da top-model sulla passerella del gran gala e ogni tanto ci può scappare un passo falso. Delle volte, infatti, per poco tempo, voglia o mancanza di ingredienti mi presento in sala da pranzo con un toast. Errore che pago caro venendo scherzosamente additato come traditore della patria italica, suscitando la delusione di tutte le loro aspettative e provocando la vergogna sul mio volto. A guardarli meglio, però, vedo le loro spalle rilassarsi e li vedo tirare un sospiro di sollievo, come quando a scuola godevi per un 5 e mezzo della secchiona della classe. Non per sadismo ma perché rendeva quella persona un umano imperfetto come te.

Io comunque non ce la facevo più a essere sotto la lente ogni giorno e ad andare avanti con tutta quella pressione addosso. Ieri, infatti, ho scaldato il mio cibo e ho puntato dritto verso lo sgabuzzino, determinato a mangiare in solitaria. Ho aperto la porta e con mia grande sorpresa ho scoperto di non essere solo: al buio, con una torcia puntata sulla fotocopiatrice, la segretaria stava stampando la ricetta del mio ultimo pranzo da distribuire ai colleghi. È vero che ho sempre voluto diventare uno scrittore… ma non di ricette italiane per svedesi.

 

Roberto Riva