ITALIANI IN SVEZIA NEI SECOLI: Apollonio Menabeni

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APOLLONIO MENABENI (Milano 1540 – Milano 1604). Medico, naturalista, scrittore, filosofo e poeta. Nasce certamente da una famiglia lombarda, benestante, ma incerte sono le date della sua nascita e della sua morte. Di temperamento inquieto, fin da ragazzo sogna di viaggiare in Europa per studio e per ricerca. Ultimate le scuole primarie e secondarie, si iscrive all’Università di Milano e si laurea in Medicina. Legge molti libri di viaggi verso luoghi estremamente esotici, quindi scientificamente interessanti da visitare per un italiano come lui; tra tutte queste diverse pubblicazioni viene attratto in modo particolare dalla “Historia de gentibus septentrionalibus”, un’opera riccamente illustrata di Olao Magno, edita a Roma nel 1555. È, infatti, profondamente interessato alla fauna e alla flora della Penisola Scandinava.

Venuto, quindi, a sapere che nel 1572 Re Giovanni III di Svezia ha incaricato il diplomatico tridentino Oliviero d’Arco di reclutare medici, farmacisti e artisti italiani, per la Corte di Stoccolma, a circa 34 anni, nel 1574, Menabeni, ormai da tempo desideroso di intraprendere un importante viaggio esplorativo in Europa, ha finalmente l’opportunità di raggiungere la penisola Scandinava e, più precisamente, la Svezia. Malgrado anche in Italia, come in tutta Europa, si stia vivendo un difficile periodo nel bel mezzo della Controriforma a causa del conseguente disastro che la Chiesa di Roma sta subendo per l’avanzata del movimento protestante e benché egli stesso abbia optato per il cattolicesimo, decide comunque di recarsi in quel paese appena divenuto protestante. Il 6 maggio di quello stesso anno, infatti, ha ricevuto dal trentasettenne Giovanni III Vasa – divenuto Re di Svezia da sei anni – una lettera che lo nomina ufficialmente Protomedico di Corte a Stoccolma. È ben consapevole di correre il rischio d’essere sospettato, in prima persona, di eresia; eppure, forse, chissà, questa sua decisione di tentare, deve derivare da una certa rassicurazione per il fatto che il Re di Svezia, Giovanni III Vasa, è sposato, da ben dodici anni, con la Principessa Caterina Jagellona, una polacca cattolica, figlia della Regina di Polonia, l’italiana Bona Sforza; ed è, inoltre, a conoscenza che costei da qualche tempo sta inducendo suo marito verso una politica di restaurazione cattolica nel paese. Quindi, nell’aprile di quello stesso anno, raggiunge Danzica da Milano, via terra e, da qui, si imbarca su una caracca, con destinazione Stoccolma. Ma, malgrado sia in primavera, si imbatte in un clima gelido. La temperatura, da quelle parti, è ancora talmente rigida che, giunto in prossimità del porto, vista l’impossibilità dell’imbarcazione d’attraccare, è costretto ad abbandonarla e a percorrere l’ultimo tratto procedendo a piedi sulla superficie del mare ghiacciato, trascinandosi dietro i bagagli: unico modo possibile per raggiungere la capitale svedese. Il Re di Svezia ha stabilito, per i suoi servizi, un compenso annuale di ben 500 talleri. Oltre a ciò gli viene accordato il diritto di ricevere, nel corso d’ogni anno, alcuni emolumenti in natura che consistono in: 1 abito per sé, 48 barili di malto, 24 barili di orzo, 10 libbre di luppolo, 1 barile di burro, 4 buoi, 8 maiali, 20 capre, 52 polli, 1 botte di vino, 2 barili di salmoni, 2 barili di aringhe, 1 barile di stoccafisso, oltre ad una serie di vestiti per i due suoi servitori e alcune balle di biada sufficienti a nutrire i due suoi cavalli. Ma egli, ogni giorno, dopo aver assolto ai suoi compiti di medico al servizio del sovrano, nel tempo libero si dedica allo studio del flusso delle maree e allo studio della fauna caratteristica della Scandinavia. Infatti è così interessato a tali fenomeni e a tali animali, che si dedica con grosso impegno all’osservazione delle acque del mare e alle vite e ai comportamenti degli animali, particolarmente delle renne, delle alci e dei ghiottoni. Così, a conclusione delle sue ricerche, scrive le seguenti due importantissime opere “Libellus de causis fluxus, & refluxus aquarum Stocolmiensium”, che verrà pubblicato da Michaelem Tinum, a Milano nel 1581 e “Tractatus de magno animali, quod alcen nonnulli vocant, Germani verò Elend, & de ipsius partium in re medica facultatibus: item Historia Cervi Rangiferi & Gulonis Filfros vocati”, che verrà invece pubblicato da Maternum Colinum, a Colonia, sempre nel 1581, di cui, una copia, oggi è conservata presso la Biblioteca Reale di Stoccolma. In precedenza, un altro scrittore naturalista, Konrad Gesner, ha già preso in considerazione l’alce pubblicando un suo saggio a Zurigo nel 1551, in seno alla raccolta “Historiale Animalim, Liber I De Quadrupedibus viviparis. De Alce”. L’anno successivo, nel maggio del 1575, viene assunto alla Corte Svedese, ancora un medico, Carolinus Sebastianus; però, a costui è riservata una paga annuale di soli 300 talleri. Nel suo “Libellus” Menabeni chiarisce che le maree che si verificano nelle acque interne della città di Stoccolma, non sono prodotte da fenomeni straordinari della Natura, come il popolo svedese crede da sempre, ma scaturiscono dagli effetti che la Luna, durante le sue diverse fasi, produce sulla Terra. Nel “Tractatus”, invece, precisa che il suo interesse per l’alce non è di natura zoologica, ma medica. In particolare, stando alla teoria riportata da Münster nel suo “Cosmographiae universalis” pubblicato nel 1544, “gli zoccoli dell’alce curerebbero l’epilessia e la pelle dell’alce, poi, se indossata in battaglia, proteggerebbe, al pari d’una corazza di ferro, dai colpi delle armi da taglio. Anche Olao Magno, nella sua “Historia de gentibus septentrionalibus”, aveva scritto: “L’unghia della zampa destra posteriore di un alce vergine, se recisa all’animale da vivo, nella seconda metà di agosto, una volta triturata e ingerita, costituisce un ottimo rimedio contro i crampi e, soprattutto, contro l’epilessia. Questa convinzione sarebbe nata in Germania, dove l’alce è chiamato in tedesco ‘elen(d)’, parola simile a ‘elende’, ossia «miseria», nome con cui eufemisticamente viene chiamata dal popolo l’«epilessia»”. Qui, allora, entra in gioco l’antichissima ‘Teoria della Segnatura’, ribadita anche da Paracelso nella prima metà del Cinquecento, secondo la quale la Natura sarebbe una grande farmacia e Dio il farmacista che ha assegnato un «Segno» ad ogni pianta, animale e pietra, in modo da consentire agli uomini di riconoscere subito per quale tipo di malattia ogni pianta, animale o pietra possa costituire una terapia. Infatti secondo tale teoria, ogni simile può curare un suo simile; quindi, ad esempio, la pietra rossa dell’ematite, può bloccare le emorragie, il lampone, che nella forma è simile ad uno stomaco, può essere efficace per le malattie di quest’organo, e così via. Quindi un alce o ‘elen(d)’ che ha il nome simile alla parola ‘epilessia’ o ‘elende’ può essere valida per la cura di tale male. Poi c’è da dire che, già nel basso medioevo, l’alce, considerato allora un asino selvatico, con i suoi zoccoli, ma anche con la carne, con il cervello, con il cuore, con i testicoli, con il latte e con il suo sangue, costituiva un ottimo rimedio contro l’epilessia.

Dopo quattro anni di permanenza in Svezia, nell’anno 1578, Menabeni decide di abbandonare la Corte del Re Giovanni III e, quindi, Stoccolma, per trasferirsi a Vienna. Nella capitale austriaca viene accolto presso la Corte dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Rodolfo II d’Asburgo, eletto sul trono da appena due anni. Tre anni più tardi, da questo paese, darà alle stampe il suo “Libellus” dedicato al Granduca di Toscana Francesco I de’ Medici, in quanto persona interessata alle scienze ma, soprattutto, perché alleata degli Asburgo, famiglia presso cui egli ora presta il suo servizio di medico. In seguito darà alle stampe anche il suo “Tractatus” che, invece dedicherà direttamente al suo sovrano.

Nel 1593 lascia Vienna e fa ritorno in Italia, nella sua città natale, dove continua a studiare e a scrivere saggi e trattati diversi, senza, però, preoccuparsi più di pubblicarli. All’età di circa 64 anni muore lasciando numerosi manoscritti, tutt’oggi conservati presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. Tra questi figurano: un commento all’opera di Claudio Ricardi Sequani dal titolo “De Lapide Bezoar”, pubblicata da Andrea Bacci, a Francoforte, nel 1603; alcune poesie in lingua latina e otto lavori di carattere medico riguardanti le diete alimentari nonché le cause dell’insorgere dei calcoli e gli effetti che questi producono sugli organi coinvolti.

Apollonio Menabeni nella prefazione del suo ultimo trattato, lascia scritto: «Se verrò a sapere che il mio lavoro è stato apprezzato da persone colte e valenti, ciò per me sarà di conforto e mi allevierà la sofferenza provata nel difficile viaggio in Svezia e mi farà sentire, in parte, ripagato per le tante cose materiali perse durante quel tragitto che ho affrontato, in momenti anche a rischio della vita».

Alberto Macchi

Foto: Pixabay by moshehar
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Fonti: Vera Nigrisoli Wärnhjelm, Apollonio Menabeni, protomedico di Giovanni III di Svezia, e il suo trattato sull’alce, Dalarna University, Falun 2003 (Atti della XXXVII Tornata degli Studi Storici dell’arte medica e della scienza, Andrei Livi editore, Fermo 2008, pp. 94-107). Reidar Müller, Il richiamo del lupo: Nel profondo nord sulle tracce del principe delle foreste, Sonzogno, Venezia 2019. Nuovo Dizionario Istorico ovvero Storia in compendio di tutti gli uomini che si sono resi illustri, Remondini di Venezia, Bassano 1796.

Mario Tabanelli, Una città di Romagna nel Medio Evo e nel Rinascimento, Magalini, Brescia 1980.