Quando vivi all’estero, soprattutto in un Paese dove la comunità italiana non è tra le più numerose, è minima la probabilità di vedere dal vivo un’artista che è tra le tue preferite.
E invece… grazie al direttore dell’Istituto Italiano di Cultura (Francesco Di Lella) e del suo staff, mi è stata regalata la possibilità di incontrare dal vivo una tra le cantautrici italiane che più apprezzo: Malika Ayane.
L’occasione nasce dalla presentazione del suo primo libro “Ansia da felicità” e, se già il titolo ispira alla lettura, sapere che chi lo ha scritto è una virtuosa conoscitrice dell’animo umano (i testi delle sue canzoni ne sono un eccellente esempio) toglierà ogni dubbio!
Si, forse sono un po’ di parte: adoro Malika, il suo modo unico di cantare, di dare un senso ad ogni parola, di pronunciare ogni singola frase in quel suo modo così particolare. E amo la sua unicità, il suo essere sempre fedele a sé stessa, senza seguire mode, ma, anzi, creandone.
Anche sul palco dell’Istituto si è presentata con la sua originalità, a partire dall’abbigliamento: un castigatissimo robe manteau lungo fino ai piedi, di un grigio rigoroso, ma con un grande spacco che lasciava intravedere dei sorprendenti, lunghissimi stivali chiari, con un tacco a stiletto impressionante.
Per contrasto, la sua semplicità, il suo essere simpaticamente alla mano nel rispondere alle domande del Di Lella, l’hanno fatta apprezzare ancora di più da tutti i presenti.
Dopo il dibattito, Malika ci ha regalato alcuni suoi pezzi, accompagnata magistralmente da Jacopo Bertacco. La sua voce, potente eppure melodiosa, le sue canzoni hanno riempito di magia l’auditorium e coinvolto il pubblico presente che ha applaudito entusiasta e lungamente.
Generosamente, Malika è tornata sul palco e ci ha regalato altri 2 pezzi.
E altrettanto generosamente, si è prestata a rispondere ad alcune domande per il nostro giornale e qui di seguito vi propongo l’intervista.
Sappiamo che tuo papà viene dal Marocco e che tu sei figlia di un’italiana e di uno straniero in Italia. Com’è stato vivere questa dicotomia in un paese, peraltro, ai tempi non così accogliente, forse neanche adesso, e se hai qualche suggerimento da dare a chi, come tanti di noi, vive questa situazione, con un compagno straniero in un paese straniero.
È stato negli anni 90 quando io ero bambina, era forse la prima ondata migratoria. C’eravamo solo io e mia sorella nel quartiere. La cosa sorprendente era che il quartiere era per lo più abitato da persone che avevano smesso di essere migranti del sud poco prima.
La cosa che ho riscontrato, un po’ perché la mia era una famiglia normale, modesta, è che – cosa che vedo anche adesso – il problema è sempre che arriva uno più in difficoltà, con un sentirsi diverso, in un senso non bello.
Quello che però io ho deciso nella vita, quando ero anche abbastanza piccola, quindi più o meno alle scuole medie, era che puoi scegliere se puoi essere diverso da compatire, cioè essere lo sfigato o l’eccentrico. E io ho scelto di raccontarmi, di portare il bello di quello che era la mia esperienza di “diversa” nel mio quotidiano, ed è stato a volte faticoso, però è quello che mi ha permesso di fare poi quello che desideravo, anzi di realizzare sogni che non avrei neanche immaginato.
Oggi, se devo consigliare a qualcuno che vive fuori, gli consiglio di mischiarsi sempre, perché…
…l’integrazione…
… interazione, più che integrazione, perché alla fine siamo tutti diversi ed abbiamo tutti poi le stesse miserie umane.
“Ogni famiglia è triste a modo suo”, mi pare dicesse forse Tolstoj, comunque un russo, diceva proprio questa cosa, che ogni famiglia è triste a modo suo, quindi noi che siamo individui all’interno prima dei nuclei familiari e poi di quelli della società, non possiamo che cercare di guardare gli altri singoli e cercare di fare la nostra parte, dimenticarci, ecco, anche delle nostre ferite.
Fantastico! Ma cos’è che non fa bene ‘sta donna? Ti prego, dimmi che cucini male!
Cucino da dio!
(Uff…)
Malika, quante lingue parli?
Ah, male ne parlo un sacco…
Non è vero, ti ho sentito parlare in inglese e lo parli benissimo.
Cerco di arrabattarmi. Adesso, vivendo in Germania cerco di parlare il tedesco, ma lo parlo malissimo, però mi lancio, parlo con tutti, vado di sfondamento. Poi il francese e un po’ lo spagnolo.
E l’arabo?
L’arabo quando sono da mia nonna, che parla solo il dialetto di Meknès, quindi non ho alternative. È una lingua che purtroppo ho perso perché è una di quelle che va praticata tanto e se non hai possibilità quotidianamente è difficile, quindi per sopravvivenza si lascia.
Non sapevo vivessi in Germania. Perché questa sarebbe stata la mia prossima domanda! Cioè che cosa ti trattiene in Italia? …Non ti trattiene nulla perché te ne sei andata in Germania!
… allora, io sono tanti anni che ridendo dico sempre che vivo all’aeroporto, nel senso che appena posso cerco di andare in posti che non conosco, però ho sempre tenuto la base a Milano perché mia figlia, giustamente, ha l’altra metà della famiglia lì e quindi mi sembrava violento staccarla dai suoi affetti. Adesso che è un po’ più grande e che quindi sta studiando a Berlino, finalmente ho potuto chiudere casa di Milano.
…e quindi l’hai portata lì…
No, lei è andata l’anno scorso a fare un progetto di scambio e poi, una volta che ha deciso di rimanere, ho stappato lo champagne, confesso!
Questa la faccio a tutti quelli che intervisto: c’è una domanda che tu avresti voluto ti facessero, in tutti questi anni di interviste.
Non tanto a me, in quanto Malika. Penso che si chieda troppo poco alle persone come stiano. Cioè, penso che in generale in tutto il “mondo intervista”, considerando che si parte sempre dal pretesto di un progetto nuovo, un tour, un disco, eccetera, si tende a voler trattare gli artisti come dei modelli, si chiede troppo poco di come si sentano umanamente, che secondo me potrebbe invece essere quella la vera modalità di dare qualcosa, a chi legge, o a chi ascolta, e quindi diventare, non tanto aspirazionale perché hai fatto qualcosa che il pubblico non fa, ma per come gestisci i momenti in cui, non dico ti si rompe la lavatrice, ma la giornata in cui tutto ti va storto.
Secondo me quella è una cosa che bisognerebbe chiedere più spesso: “come stai” banalmente. Infatti i miei amici mi prendono in giro perché ogni volta che entro in un negozio, sono in un ristorante, chiedo a tutti come stiano in quel giorno.
Sì, è bello questo, ma non tutti sono disposti a rispondere.
Appunto, perché siamo abituati ad avere paura di dire anche che va tutto a volte catastroficamente.
Io ti seguo, io sono una tua groupie, un po’ attempata, a dire il vero …
Tu hai uno stile tutto tuo e sei sempre stata molto fedele a te stessa. Anche, ho visto, nel vestire, nell’atteggiamento, nel proporti.
Sei un ossimoro vivente, perché sei “una diva” dalla semplicità assolutamente fuori dalle regole. Quanto costa mantenersi così e non scendere a compromessi per mero interesse commerciale? Intendo dire: tu fai proprio artisticamente, qualcosa di molto elegante, molto di nicchia se vogliamo, non sei la “classica” cantante pop, (a parte alcuni pezzi che veramente sono stati in vetta alle classifiche)… fai delle cose che ti piacciono, e che, evidentemente, piacciono a chi piaci.
Ma quanto costa mantenersi fedeli a sé stessi?
Costa tanto perché… il lavoro dell’artista, a qualsiasi livello, costa perché c’è un’incertezza di base, come se avessi un negozio, dipendi dal pubblico che si serve di quello che fai.
Decidere di lanciare in un mucchio così grande qualcosa che non può arrivare sempre facilmente, è un aumento del tasso di incertezza.
Però penso che non costi meno fatica darsi a qualcosa che può funzionare più commercialmente, perché poi alla fine torniamo sempre lì: ti svegli la mattina e il giorno in cui hai finito il caffè… o magari no, magari è il maggiordomo che te lo trova, se lavori tanto commercialmente e quindi puoi permetterti una vita diversa.
Alla fine siamo sempre tutti esseri umani, quindi io penso che sia una cosa, alla fine, di indole, cioè io pago in incertezza, e una persona che decide di fare un lavoro più commerciale paga magari in nostalgia di quello che vorrebbe fare.
Quindi alla fine decidi da che parte sentirti più vulnerabile, e tra le due, per come sono fatta io, è meglio preoccuparsi se il prossimo lavoro non piacerà a nessuno, invece di preoccuparsi se non mi sto divertendo abbastanza.
E se prima Malika mi piaceva per come canta, ora la adoro per come è.
Intervista di Marilinda Landonio
Foto: Ayane (C) Gianluca Saragò